Non si trova molto su di lui, eppure Vladimir Pruss ebbe un ruolo di primo piano nella nascita dell'orologeria sovietica. Nato a Vitebsk, Bielorussia, studiò da orologiaio e divenne artigiano in proprio. Entrò presto nel movimento rivoluzionario e per questo motivo fu prima esule in Siberia e poi, dopo un breve rientro, nel 1905 fuggì in Svizzera, prima a Berna e poi a Ginevra. Qui divenne amico di Lenin, compagno di esilio, seguendolo a Mosca dopo la rivoluzione d'ottobre. Fu proprio da Lenin che Pruss ebbe l'incarico di avviare l'orologeria sovietica. Si occupò della gestione del consorzio della meccanica di precisione (il più volte citato Gostrest Tochmekh) e fece parte del ristrettissimo team inviato prima in Europa e poi negli Stati Uniti per acquisire le tecnologie necessarie alla produzione di orologi in patria.
In letteratura se ne trova traccia in alcuni libri di orologeria come ad es. il mai abbastanza citato libro sulla storia della Slava di Vladimir Bogdanov, o Chasovoye Delo v Rossii, orologeria in Russia, dell'orologiaio di alta gamma contemporaneo Konstantin Chaykin (2012) e ne ho trovato informazioni persino in un interessante lavoro accademico sulla storia dell'orologeria in Russia, Из истории развития часового производства в России, di Olga Melnikova (2005).
Ecco dunque il frammento trovato in "La bontà insensata - Il segreto degli uomini giusti", di Gabriele Nissim, 272 pp., Mondadori, 2011. Prezzo modico e libro che ho apprezzato, meglio di così

Non si era comportato bene nemmeno Vladimir Pruss, accusato di essere una spia dei tedeschi. Da quel momento la vita di sua figlia Dora diviene un inferno. E una storia vera, una delle tante che spinsero Grossman a raccontare gesti di bontà insensata nei confronti degli stranieri. Dora però quella bontà non la conobbe mai, come la maggior parte dei sospettati, e fu lasciata sola.
La incontro, poco prima della sua scomparsa, nel minuscolo appartamento di 25 metri quadrati in un casermone alla periferia di Mosca.
La fotografìa del lago di Ginevra
Dora Pruss è cieca, ma chi raramente la va a trovare rimane sorpreso dalle grandi fotografie del lago di Ginevra e delle cime innevate delle montagne svizzere appese ai muri della sua dimora. «Le guardi bene» mi dice, alzando gli occhi come se anche lei potesse vederle assieme a me. «Chiunque viene a casa mia deve sapere che ho un'origine svizzera e amo la cultura tedesca. E sono anche ebrea. Fino a quando rimarrò su questa terra continuerò a ricordarlo con questi manifesti.» È una protesta silenziosa, per non dimenticare la persecuzione della sua famiglia. Dora Pruss ha pagato un prezzo pesante per una colpa non sua; suo padre e suo fratello sono stati fucilati; sua madre è impazzita per la disperazione; lei e sua sorella hanno vissuto con un marchio disonorevole: avevano un padre «svizzero», colpevole di collusione con il nemico.
Dora Pruss ama gli orologi come suo padre Vladimir.
«Io li amo ancora, nonostante tutto.»
Da quel troppo amore ha origine il dramma di tutta una famiglia.
Vladimir, di origine russa, vive a Ginevra dall'inizio del Novecento, dove esercita con grande passione la professione di orologiaio. Un giorno incontra nel circolo degli immigrati russi il rivoluzionario Lenin, durante il periodo del suo esilio svizzero.
Discutono assieme la possibilità di costruire in Russia la prima fabbrica di orologi. Preso dall'entusiasmo per la rivoluzione bolscevica, nel 1925 Vladimir decide di andare a vivere a Mosca. E riesce nell'intento: nasce con lui l'officina Kirov, che dà avvio all'orologeria sovietica. I macchinari li trova a poco prezzo negli Stati Uniti, dove acquista l'impianto di una vecchia fabbrica di orologi; i primi operai sono dei ragazzi di un orfanotrofio che istruisce con pazienza e dedizione al minuzioso lavoro di orologeria, recluta, invece, in Germania la manodopera specializzata per avviare l'impresa: quaranta operai tedeschi sono il pilastro della produzione. Inizia così la sua disgrazia. Negli anni del terrore tutti i suoi operai tedeschi vengono arrestati e fucilati perché considerati dei nemici potenziali. Chi è tedesco è etichettato tout court come fascista. Stessa sorte capita a Vladimir Pruss: è accusato di avere organizzato nella fabbrica un pericoloso nido di spie. «Di colpo» ricorda Dora «cambia tutto nella mia vita: distruggono le mie passioni di ragazzina: l'amore per il teatro, per la musica, per il pianoforte; mi ritrovo a portare i pacchi di viveri alla Butyrka, la grande prigione di Mosca, sperando che giungano a mio padre. Davanti alla prigione ci sono sempre migliaia di parenti in attesa, occorre fare file lunghissime, che sono divise a seconda dell'imputazione: c'è quella dei prigionieri politici e, accanto, quella dei criminali comuni, che si prendono gioco di noi. Assisto a scene tremende, come quando non accettano il denaro per un detenuto: significa la fine, e i parenti allora si disperano e vengono pure insultati dai delinquenti della fila a fianco.»
A Dora sequestrano il pianoforte e gli oggetti personali. Le requisiscono tre quarti dell'appartamento e la costringono a vivere con sua madre e sua sorella in una sola stanza. Gli agenti dell'Nkvd la terrorizzano con ripetuti interrogatori, mentre da un giorno all'altro la abbandonano tutti gli amici.
Non le comunicano mai la sorte del padre e del fratello, ma le giunge solo un laconico messaggio: hanno tolto ai prigionieri per dieci anni il diritto alla corrispondenza. È il codice politico per indicare la fucilazione avvenuta. Lo scoprirà vent'anni dopo.
Dora continua cosi a vivere con il marchio di un padre «spia» dei tedeschi.
«Ho lavorato prima in una sartoria, poi in una banca, poi in un ufficio. Ma era sempre la stessa storia perché anche se i miei colleghi non mi dicevano niente, ero costretta, dopo uno o due anni, a cambiare lavoro. Non era il caso di frequentare la figlia di un nemico del popolo.»
C'è solo una variante nella sua vita sfortunata. Nel 1952, quando comincia la campagna antisemita, la cacciano dall'ufficio dove lavora come segretaria con l'accusa inverosimile di avere rubato la cancelleria. Questa volta è colpevole di essere ebrea e la licenziano assieme a tutti gli ebrei che lavorano nel magazzino.
«Capisce ora perché io voglio che si sappia che sono svizzera, che amo la cultura tedesca, che sono ebrea? Mi hanno tolto il padre, ma non le idee di mio padre.»
Quando sto per andarmene mi prega di inviarle dalla Svizzera un album con le foto dei nuovi orologi. La chiamo qualche mese dopo per annunciarle la spedizione; il suo telefono non squilla più. Con lei sparisce per sempre il segreto di una resistenza, apparentemente senza senso.
(Estratto da "La bontà insensata", di Gabriele Nissim, ed. Mondadori, 2011)